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Percorsi e voci di quattro professioniste nei reparti tecnici del cinema

In un’intervista con ARRI, Gioia Casale e Giuditta Paolini (AC/Focus Puller), Irene Castrogiovanni (Steadicam/Trinity Operator) e Marianna Fratantoni (Camera Operator) raccontano di come hanno creato immagini e atmosfere per film e serie tv. 

Jun. 10, 2024

In reparti tecnici frequentati prevalentemente da figure maschili, Gioia Casale (AC/Focus Puller), Giuditta Paolini (AC/Focus Puller), Irene Castrogiovanni (Steadicam/Trinity Operator) e Marianna Fratantoni (Camera Operator) hanno creato immagini e atmosfere per film e serie tv. Qui raccontano le loro esperienze sui set italiani e internazionali, nei quali sono state accompagnate da strumenti ARRI come ALEXA 35, TRINITY e HI5.

Come è iniziato il vostro percorso nel mondo del cinema?

Gioia Casale: Dopo la fine del liceo ho portato avanti la passione per la fotografia finché sono approdata a Torino, dove mi sono iscritta al Dams e in contemporanea ho iniziato a lavorare come assistente alla regia in produzioni cinematografiche. In quel periodo – erano i primi anni 2000 – ho fatto tre film e ho capito subito che il mio reparto era fotografia: stavo sempre con le mani nella pellicola a cercare di caricare i magazzini, ma sapevo anche che era difficile entrare in un reparto pieno di uomini e molto impostato sulla mascolinità. Poi nel 2004 sono andata a Barcellona a fare l'Erasmus, erano gli anni in cui si passava lentamente al digitale.

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Gioia Casale sul set

Il mio compagno dell'epoca lavorava a Berlino - dove poi ci siamo trasferiti - per ARRI, che era appena passata al digitale con l’Arriflex D-20 e D-21. Grazie a lui, uno dei primi DIT, mi sono avvicinata a questo mondo che già conoscevo, ma a livelli più alti, e ho deciso che sarebbe stata la mia strada. Nel 2008, appena arrivata a Berlino, ho fatto una sit-com turca-berlinese come focus puller, non ero minimamente preparata. Mi hanno detto: quella ragazza entrerà e verrà verso di te, devi seguirla. Io non avevo la minima idea di come farlo. Il mio compagno mi disse che più era lontana, più dovevo andare lenta, più si avvicinava, più dovevo accelerare. Per me fare un fuoco era andare “lento, lento”, poi “rapido, rapido, rapido”. O il contrario. Il fuoco è venuto perfetto e mi sono molto emozionata. Ho capito che questo doveva essere il mio lavoro. L'ho sentito.

Giuditta Paolini: Sono cresciuta a Frosinone, una piccola realtà cittadina, dove ero intossicata di cinema. Da adolescente avevo in camera i poster di Storaro e Rotunno, anziché delle rockstar. Volevo fare fotografia cinematografica, ma venivo da una realtà in cui nessuno ne parlava; perciò, la laurea era un passaggio obbligato, e ho optato per Lettere con indirizzo spettacolo. Mentre studiavo ho fatto anche lo IED e poi il Centro Sperimentale di Cinematografia, dove mi sono diplomata in fotografia, in pellicola, proprio mentre si imponeva il digitale. Avevo imparato a fare ritocchi fotografici con il pennellino, ma quando ho finito di studiare è arrivato Photoshop. Il mio primo lavoro è stato come video assist del "Commissario Rex", il cui DP era Daniele Massaccesi, che è stato il mio primo papà sul set. Volevo fare la direttrice della fotografia, ma una volta capito che esisteva l'assistente operatore, un mestiere iper-manuale, ho sentito che era quello che volevo fare. Era un mestiere di concentrazione e silenzi, oggi non lo è più. In seguito, a parte i corti del CSC, il primo ruolo da assistente in un film vero è stato nel 2009, con una delle prime macchine digitali. Il film era "L'ultimo re" di Aurelio Grimaldi, tutto illuminato con i bracieri.

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Giuditta Paolini e ALEXA Mini LF, sul set del film “Gli anni più belli” di Gabriele Muccino 

Irene Castrogiovanni: Ho iniziato nel 2015, ho fatto la scuola Holden perché volevo fare la sceneggiatrice. Non avevo mai pensato di fare l'operatrice di macchina, ma Domenico Procacci, che è stato il mio maestro, ha visto il primo cortometraggio girato da me e mi ha consigliato di fare proprio l'operatrice di macchina perché avevo una buona mano. Mi sono ritrovata così a fare le riprese per tutti i colleghi di corso. Nel 2017, appena diplomata, ho iniziato a lavorare con la LMC Vision di Torino, dove ho fatto spot, videoclip, progetti per la tv. Amavo la macchina da presa in movimento, meno quella statica e così mi hanno fatto provare la steadicam. Appena ho indossato il corpetto mi sono detta “ho capito cosa voglio fare da grande”. Il mio maestro era Junior Lucano, uno dei soci della LMC Vision, che pur vivendo in Cina mi ha seguito negli allenamenti durante la pandemia. Poi ho fatto dei corti per un service e un film su Torino, "Tramonto a nord ovest" di Luisa Porrino, con una sola macchina da presa, tutta in steadicam, in montagna: un’esperienza favolosa. Tempo dopo mi sono trasferita a Roma e mi sono iscritta all'A.I.T.R.

Marianna Fratantoni: Nonostante la mia famiglia fosse distante dal cinema, ho sempre voluto farlo. Mi sono iscritta al Dams a Bologna e con i miei è stata una guerra. Ho iniziato a fare corti in modo non professionale e poi sono andata a lavorare con la Technovision a Milano, dove ho avuto come maestro Oddo Bernardini, operatore di Fellini. In quel contesto ero l'unica donna. Stavo con lui in officina, pulivo, guardavo e imparavo tutto di pellicole e ottiche. A Milano, poi, ho iniziato a fare pubblicità, ma non mi piaceva molto, quindi sono approdata al cinema. Ho fatto un film a Bologna, il cui direttore della fotografia in seguito mi ha fatto scendere a Roma per un film "Giorno 122" e dopo un anno senza lavoro, nel 2008, ho fatto l'assistente in una serie molto lunga: "Tutti pazzi per amore", che è stato l'inizio del lavoro vero e proprio come assistente operatrice. È talmente difficile farlo per noi donne, che se ci arriviamo vuol dire che abbiamo proprio una passione.

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Marianna Fratantoni sul set del film “L’Agnello” di Mario Piredda

Da questo punto di vista come si evolve la situazione? Sta aumentando la presenza delle donne nei reparti tecnici del cinema italiano?

Giuditta Paolini: Nel tempo la situazione è cambiata tanto: all'inizio eravamo 4-5, ora siamo tante. Ma c'è ancora un problema sui ruoli. Marianna ha lavorato tanti anni come assistente dello stesso DP, Valerio Azzali, che poi le ha dato l'opportunità di fare l’operatrice di macchina. Ma se passi a fare l'operatrice è come iniziare la carriera da capo. Anche oggi è difficile far digerire che ci sono delle donne che fanno l'operatrice di macchina, anche se le macchine sono più piccole. È solo una questione culturale.

Qual è il progetto che finora vi ha dato più soddisfazione dal punto di vista tecnico e creativo?

Gioia Casale: L'ultimo film che ho fatto, "Cold Storage" di Jonny Campbell, è stato bello ma complicatissimo. Mi occupavo di due macchine da presa e abbiamo fatto tutto con il TRINITY, che amo molto perché per me il movimento è tutto. Abbiamo lavorato senza prove, in Marocco sotto al sole e con la tempesta di sabbia, tutto era fatto on stage e ogni ciak era diverso. È stato un lavoro molto complicato a livello tecnico, in cui c'era di tutto, dalle esplosioni ai mostri: è stato uno dei lavori che mi hanno reso più orgogliosa.

Giuditta Paolini: Tre anni fa ho fatto "Stranizza d'amuri", l'esordio alla regia di Beppe Fiorello, che parlava del delitto di Giarre e di due bambini che scoprono l'omosessualità e si innamorano. In una scena, la mamma scopre che il figlio è omosessuale ed è preoccupata per lui. I due iniziano a ballare in cucina, si fermano, si guardano, si toccano, mentre la steadicam va all'indietro. Mentre giravamo chiedevo se potevo sfocarla, ma il DP Ramiro Civita non mi sentiva, quindi l'ho fatto di testa mia. Alla fine, grazie a questa sfocatura, i due attori si sono uniti all'interno di un cuore: Beppe Fiorello era entusiasta.

Irene Castrogiovanni: Ricorderò per sempre la mia prima caduta con la steadicam su "La porta rossa", il primo lavoro a Roma. All'inizio, dovevo fare solo una sostituzione, ma poi regista e direttore della fotografia mi hanno confermata per tutte le 14 settimane di riprese. Une notte nella cava, su un terreno difficile pieno di buche e con l'erba alta, dovevo fare un piano-sequenza a precedere in cui Lino Guanciale litigava con Valentina Romani. Dovevo stare al loro passo tra buche ed erba, dietro di me c'era il regista, insieme abbiamo preso una buca e ho iniziato a cadere. In cuffia il DIT mi chiedeva "Irene, perché inquadri il cielo?".

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Irene Castrogiovanni sul set della serie "Il commissario Ricciardi"

Marianna Fratantoni: Da operatrice il mio film del cuore è "50 km all'ora" di Fabio De Luigi, perché è stato il mio primo film in prima macchina. È stato bello interfacciarmi col regista: mi ha dato grande fiducia, pensando che il mio essere donna fosse un valore aggiunto. È stato un film on the road, complesso, in cui ho imparato ad usare un mezzo tecnico che non avevo mai usato così tanto. Un film che invece mi ha fatto pensare che fare questo mestiere è un privilegio, perché porta a fare delle cose che altrimenti non vedresti mai, è stato "Le quattro volte" di Michelangelo Frammartino, girato in pellicola. È stato magico. Girammo 14 volte un piano-sequenza di 9 minuti con pecore, cani e comparse, tutto in pellicola, coi magazzini grandi. Ci aprirono apposta il cinema del paese per farci vedere il rullo con i giornalieri.

Che rapporto avete con gli strumenti ARRI nel vostro percorso professionale?

Giuditta Paolini: È un sistema estremamente affidabile che funziona in qualsiasi situazione. Il materiale ARRI resiste benissimo a distanza di anni.

Marianna Fratantoni: La cosa bella di ARRI è che è tutto molto intuitivo, per quanto riguarda le macchine da presa apprezzo molto l’ottima visibilità della loupe.

Irene Castrogiovanni: Ho provato il TRINITY e per quanto mi riguarda aumenta la creatività del gioco. Come macchina ho usato ALEXA 35 sull'ultimo lavoro e la userò di nuovo sul prossimo.

Gioia Casale: Con ARRI ci sono cresciuta, a partire dalle vecchie ARRICAM LT e ST. Ho avuto modo di mettere le mani su tanto altro, ma ARRI mi permette di lavorare bene, l'interfaccia è facile, le macchine regalano molto anche per i fuochi. Con il WCU lavoravo benissimo, ora c'è Hi‑5 ed è ancora meglio. Ho lavorato ora con ALEXA 35 su "Cold Storage", abbiamo fatto tutto in 35 con lenti anamorfiche. Negli ultimi anni ho usato solo ARRI: tantissimo ALEXA Mini LF, ALEXA 35 e Hi‑5.