“Io Capitano” racconta la storia di due giovani del Senegal che intraprendono un viaggio alla ricerca di un sogno chiamato Europa: un'odissea contemporanea che parte da una piccola e fatiscente casa a Dakar, attraversa il deserto, i centri di detenzione libici e i pericoli del mare aperto. Il film del regista Matteo Garrone è stato presentato in concorso alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ottenendo acclamazioni dalla critica e aggiudicandosi il Leone d’Argento per la migliore regia.
“Matteo Garrone non voleva fare un film solo sulla durezza del viaggio di donne e uomini che scappano dalla guerra o dalla fame, ma voleva invece raccontare la storia di due giovani che, partendo dal Senegal, vogliono scoprire un mondo che non conoscono, e che gli è precluso”, così il direttore della fotografia Paolo Carnera descrive “Io Capitano”. Per la prima volta insieme sul set, dopo una lunga collaborazione del regista con il direttore della fotografia Marco Onorato e le esperienze con i DPs Peter Suschitzky e Nicolai Brüel. Carnera e Garrone hanno raccontato dunque “la storia di un viaggio, anzi ‘il viaggio’, come viene chiamato dai migranti che attraversano parte dell’Africa e il mare per raggiungere l’Europa, con l’Italia come primo approdo”. Intervistato da ARRI, il Direttore della Fotografia Paolo Carnera condivide la sua esperienza con ALEXA Mini LF, ARRI Signature Primes e gli strumenti di illuminazione ARRI durante le riprese.
Qual è stato lo spunto iniziale per realizzare “Io Capitano”?
Se un ragazzo africano vuole fare il viaggio di conoscenza che molti di noi hanno fatto da giovani, per lui l’unico modo possibile per raggiungere l’Europa è affrontare un viaggio illegale, con tutti i rischi che comporta. Partendo da questa idea abbiamo costruito insieme uno stile visivo, con uno sguardo più leggero di quanto si potrebbe pensare, considerato l’argomento. Con “Io Capitano” Matteo ha voluto fare un film per tutti, anche per i ragazzi: è il racconto di un’avventura, un romanzo di formazione, a tratti drammatico ma sempre appassionante, che descrive il viaggio di giovani uomini pronti a scoprire il mondo.
Dove e per quanto tempo avete girato?
Abbiamo girato due settimane e mezzo in Senegal e quattro nel deserto, poi siamo stati a Casablanca, in una zona urbana in riva al mare per simulare Tripoli e i centri di detenzione, infine abbiamo affrontato il mare con un peschereccio per tre settimane. Matteo gira in sequenza, perciò le riprese, così come il viaggio di “Io Capitano”, sono iniziate in Senegal, il mondo da cui vengono i nostri protagonisti. Il film è parlato in Wolof, una delle lingue native del Senegal, in francese e, a tratti, in italiano.
Pensando al deserto e al mare si immagina un racconto con dominanti di colore arancio e blu, è così?
In realtà nel film ci sono tanti colori. Durante i sopralluoghi io faccio tantissime fotografie, mi servono per comunicare con il regista e per conservare la memoria delle cose meravigliose che ho visto e che vorrei trovassero posto nel film. I colori del Senegal sono strepitosi, le sue luci notturne sono piene di suggestioni. Poi c’è stato il deserto, una distesa di rocce e sabbia sconfinata, con le sue difficoltà e la sua infinita bellezza. Abbiamo girato per cinque giorni, anche di notte, in una tempesta di sabbia senza mai interromperci: le immagini sono bellissime. Abbiamo affrontato “il viaggio” insieme ai nostri protagonisti, che non erano mai usciti prima dal loro paese. Viaggiando con Seydou e Moussa ho capito la profonda necessità narrativa di Matteo Garrone di girare in sequenza. Abbiamo cercato di raccontare il loro stupore e le loro paure e noi stessi abbiamo fatto con loro un viaggio meraviglioso e difficile.
Tendevate a girare con macchina fissa o a mano?
Abbiamo girato quasi sempre con la Steadicam, operata benissimo da Matteo Carlesimo e usata come fosse una macchina a mano. Solo l’ultimo blocco, quello più teso del viaggio drammatico in mare, è stato girato con la macchina a mano.
Che tipo di ricerca iconografica c’è stata prima di girare?
Molto prima del mio arrivo sul film, Matteo ha fatto una ricerca profonda, non solo sulle immagini, ma anche tramite tantissime interviste a persone che hanno fatto il viaggio, che è stata la base della scrittura del film e della ricostruzione scenografica. Ma in un film deve sempre esserci spazio anche per la libera interpretazione, per il potenziamento emotivo del racconto, per la cura della costruzione visiva. I colori della scenografia di Dimitri Capuani e dei costumi di Stefano Ciammitti sono anche frutto della volontà di realizzare un film avventuroso, leggero, doloroso, semplice e complesso al tempo stesso, e rispettoso della cultura dei protagonisti. Io ho pensato ai grandi reporter, tra tutti il mio maestro Ernest Haas, e poi ai colori del fotografo statunitense Steve McCurry e alla composizione del fotografo brasiliano Sebastião Salgado.