Dalle parole di Stefania Auci alle immagini firmate da Paolo Genovese e dal direttore della fotografia Fabrizio Lucci: la serie tv Disney+ “I leoni di Sicilia” porta sullo schermo le pagine dedicate alla saga della famiglia Florio, che all’inizio dell’800 ha dato vita a un impero commerciale, con un cast composto da Miriam Leone, Michele Riondino, Donatella Finocchiaro, Vinicio Marchioni, Paolo Briguglia ed Ester Pantano. Un viaggio narrativo e visivo durato 22 settimane di riprese, che ha toccato molte città siciliane – tra cui Trapani, Cefalù, Favignana, Marsala e Palermo – ma che ha fatto tappa anche a Roma, dove la Palermo dell’epoca è stata ricostruita in un backlot. Intervistato da ARRI, il DP Fabrizio Lucci condivide il suo approccio visivo e i vantaggi nell'utilizzare ALEXA Mini LF insieme alle luci ARRI SkyPanel per le riprese della serie “I leoni di Sicilia”.
Come è nata la collaborazione con Paolo Genovese su questo progetto?
Io e Paolo lavoriamo insieme da tanto tempo. Dal 2010 in poi abbiamo fatto tutti i film e le serie insieme, ma ogni lavoro che facciamo lo costruiamo prima con grande attenzione. I suoi film non sono mai uguali a loro stessi, non ci sono mai déja vu. Paolo ha spaziato da “Immaturi” a “Perfetti sconosciuti”, passando per “Tutta colpa di Freud” e “The Place”. Si annoierebbe a fare cose già fatte, perciò cerca altre strade e ci coinvolge tutti nelle sue ricerche, nelle quali sappiamo che faremo qualcosa di molto nuovo, sia dal punto di vista tecnico che di linguaggio. Ci divertiamo a cambiare, insieme.
Che impostazione visiva avete scelto in questo caso per “I leoni di Sicilia”?
Non è facile raccontare un’epoca che non abbiamo vissuto e che non c’è più. Per certi versi avrebbe aiutato la pellicola, perché con il digitale otteniamo immagini troppo perfette e rischiamo di sentire l’effetto dello sguardo di oggi sull’800. Per “I leoni di Sicilia” abbiamo pensato a serie meravigliose come “Peaky Blinders” e “Taboo”, riferimenti che all’inizio sono nel tuo immaginario, ma quando poi ti confronti con il viso di un attore, con la lingua, con la città in cui giri, te ne dimentichi completamente. A Palermo, ad esempio, c’era una luce pazzesca, con il sole mai molto alto, quasi come ci fosse il tramonto tutto il giorno.
Come è avvenuta la scelta della cinepresa e delle lenti?
Prima di cominciare “I leoni di Sicilia” abbiamo fatto provini in location con più macchine da presa e diverse lenti. Preferisco sempre farli dove gireremo il film, perché lì la macchina da presa e la lente possono riconoscere i colori e le materie delle pareti del luogo. In Sicilia abbiamo provato tre cineprese di grande qualità e tre diverse serie di lenti, per vedere come reagivano. Ognuna aveva la sua peculiarità, ma abbiamo scelto la combinazione che ci sembrava la miglior compagna di viaggio per questa serie: ARRI ALEXA Mini LF con lenti Zeiss.
Quali caratteristiche della cinepresa vi hanno portato a questa scelta?
Ci ha convinto moltissimo sulle alte luci. Dovevamo fare, a monte, una scelta importante: se usare luci artificiali o meno. La serie è ambientata all’inizio dell’800, quando non c’era l’elettricità; quindi, avremmo dovuto per forza di cose illuminare gli ambienti con delle candele. Giravamo gli interni giorno in location in cui non potevamo attaccarci ai muri o all’anta di una finestra, come si fa di solito. Non potevamo nemmeno creare un perimetro di legno sui soffitti perché c’erano arazzi e affreschi che non si potevano neanche sfiorare. Dovevamo usare poca luce in interni, perciò, aprendo molto il diaframma, rischiavamo di non vedere il fuori, ma ALEXA Mini LF ci ha offerto una grande leggibilità dell’esterno. Questo è stato il motivo predominante della scelta, anche perché non volevamo forzare troppo la color correction, visto che ci eravamo dati l’obiettivo di avere un 85% del lavoro finito già in sede di ripresa. Nei film d’epoca si tende spesso a decolorare, a togliere incisione, come se vedessimo il passato con gli occhi di oggi. Noi invece volevamo proporre questa epoca vista con gli occhi delle persone dell’800, che non vedevano immagini delabré, antichizzate. Anche con la color correction, quindi, abbiamo cercato di adeguare lo sguardo a quell’epoca e abbiamo esaltato i colori dei costumi e delle scenografie con lo scopo di rispettarne la vera natura. Tutto questo grazie allo straordinario lavoro del colorist Christian Gazzi e del DIT Sandro De Frino.
Avete fatto molte ricerche iconografiche in fase di preparazione?
Sì, abbiamo fatto una ricerca importante su dipinti e rappresentazioni grafiche. Prima di iniziare, i reparti scenografia e costumi ci hanno fatto vedere dove saremmo arrivati, hanno fatto un lavoro fantastico di preparazione ed è stato molto importante sapere cosa avremmo trovato. Con loro abbiamo immaginato che tipo di fonti di luce avremmo avuto, dalle candele alle lampade a olio. A partire da quei riferimenti, abbiamo poi fatto dei provini per capire come potevamo rafforzare quel tipo di luce. Prima c’erano le lampade al quarzo, le incandescenze, cioè proiettori molto duri, decisi, ora invece si lavora con i neon e si può creare una gradazione colore meccanicamente, impostando l’effetto fuoco o l’effetto candela.
Con quante macchine da presa avete girato?
Tre. È stata una decisione presa con Paolo. Voleva farlo da un po’, anche perché con una ci voleva giocare lui, stando in macchina. Ha girato molto con la terza macchina, ha un occhio nuovo. Noi estrapolavamo una parte della sua artisticità e la integravamo. Le sue immagini avevano un gran cuore.
Di quali sistemi di illuminazione vi siete avvalsi?
Abbiamo usato molti ARRI SkyPanel , sempre un po’ filtrati. Li ammorbidivamo molto per rendere meno evidente la sorgente luminosa. Mi piace molto quando vedo un film e non capisco dove siano state messe le luci. Quando ho visto “TÀR”, ad esempio, sono rimasto con gli occhi di fuori.
Ci sono scene che ti hanno dato particolare soddisfazione?
Una sequenza che è venuta molto bene è la scena del bordello, che abbiamo girato a Viterbo. Con tre macchine, la zona off non esisteva. Giravamo a 360 gradi e in quella circostanza abbiamo avuto alcune difficoltà ma poi, un po’ grazie alla magia dell’ambiente, un po’ grazie alle candele, vedere il girato ci ha dato grande soddisfazione.
Qual era il workflow?
Prima di cominciare abbiamo preparato delle LUT col colorist, poi col DIT le abbiamo inserite. Abbiamo fatto un grosso lavoro già sul set, poi lo abbiamo allineato in post-produzione. Cercavamo la verità, la sensazione di essere lì, nella Sicilia dell’800.
Giravate con un T-stop in particolare?
Abbiamo girato con il 2:39, un formato che ci piace perché dà un po’ di cinematografia, e abbiamo messo in difficoltà gli assistenti operatori lavorando sempre molto vicini, a tutta apertura. Mettevamo più a fuoco ciò che ci interessava vedere, un attore o un elemento, e abbiamo girato molto con i teleobiettivi per avere il fuoco della scena precisamente dove volevamo. Abbiamo poi usato tantissima macchina a mano, quasi l’80%, e per il resto tutti i mezzi a disposizione: steadycam, dolly, carrello, braccio, macchina fissa, intrecciando tutti i modi di ripresa, perché alla fine vince la storia. Paolo in questo è molto deciso: la macchina è al servizio della storia e non viceversa, per noi è importante cosa si dice, più che come si dice.
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